Avevo circa dieci anni quando, dopo un saggio di pianoforte a Palosco, ricevetti in omaggio un cd grigio con scritto sopra il nome di Liszt. A dire il vero rimasi un po’ deluso: c’era chi aveva preso Chopin, Mozart, Bach, musicisti che perlomeno conoscevo. Liszt non mi diceva assolutamente nulla. Me ne tornai a casa col mio cd grigio, un po’ rassegnato e lo misi nel comodino. Solo dopo qualche settimana, preso dalle pulizie estive della mia cameretta, decisi di provare a inserirlo nello stereo: fu una rivelazione. Le melodie erano dolci e belle, ma la cosa che più mi colpì fu l’ultimo brano. Era una musica tetra, da paura, iniziava con note bassissime sul pianoforte, note per me inesistenti, mai nemmeno sfiorate. Aveva un forte senso di mistero, capace di riportarti nel lontano Medioevo, di cui ora come allora subisco il fascino. Quelle note ricreavano alla perfezione quello che per me bambino era uno scenario fantastico, ricco di atmosfere magiche popolate da castelli e cavalieri pronti a sfidarsi in battaglia. Corsi subito a leggere la custodia del cd per capire di che brano si trattasse. Ancora una volta una delusione: “Totentanz”. Incapace di comprenderne il significato, mi lasciavo cullare dalla musica e non appena terminava, ancora inappagato, premevo il tasto per farla ripartire.
Sono passati quasi quindici anni dalla prima volta che ascoltai quel disco. Giusto l’anno scorso l’ho ritrovato e ho deciso di riascoltarlo in macchina: ricordi, emozioni passate riaffioravano, ora più consapevoli, ma comunque sorprendenti. Studiato tedesco al liceo, approfondita la conoscenza della musica sacra e profana, solo ora comprendo in pieno la grandezza di quel pezzo: Totentanz, la danza macabra, creata da Liszt sul tema della sequenza del Dies Irae gregoriano. Non a caso si tratta di una sorta di variazioni sul tema, come tanti piccoli affreschi collegati tra di loro da un filo rosso.
Si dice tra l’altro che Liszt abbia avuto un’illuminazione dopo aver ammirato il grande affresco del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa. Lunga fu la gestazione dell’opera, che subì varie modifiche tra il 1838 e il 1865, anno in cui fu presentata al pubblico. Il tempo di Liszt, intriso di Romanticismo, subiva certamente il fascino di quelli che allora erano considerati i “tempi bui” del Medioevo, densi di religiosità e timor di Dio, di paesaggi sterminati, notti nere illuminate dalla luna e libri consultati a lume di candela. Tutto questo è racchiuso nel grande affresco musicale composto da Liszt, in cui ogni quadro suscita un insieme di emozioni contrapposte, quasi come se ogni tema si facesse racconto di un personaggio diverso al
seguito della danza vorticosa della Morte. Il pianoforte è contornato da un’orchestra capace di creare il contesto musicale voluto, ma lui resta il protagonista: slanci virtuosistici, melodie talvolta sommesse talvolta intrepide, tocchi leggeri come ali di farfalle e pesanti da sprofondare all’inferno ricreano di volta in volta la magica narrazione di un musicista visionario che, al pari di Dante, ha saputo raccontare magistralmente uno dei più grandi misteri dell’uomo.
Quel cd grigio che la maestra Elisabetta mi aveva consegnato col sorriso, dicendomi “Bravo Marco!”, ecco, forse è proprio quello che oggi avrei accolto con gratitudine e devozione.
Marco Grassi studente di pianoforte