Notizie

Tutte le news riguardanti le nostre attività

J.S.BACH PARTITA BWV 825 – GUIDA ALL’ASCOLTO

 

In musica la Partita è una raccolta di brani molto in voga durante il periodo barocco e composta per allietare le giornate di signori e principi.

Moltissimi compositori barocchi, infatti, hanno scritto e pubblicato le loro partite ed ognuno di loro ha interpretato questo genere nel modo che riteneva più congeniale ai propri bisogni e ai quelli dei propri committenti.

In un primo momento, il termine Partita veniva utilizzato per alludere semplicemente ad un genere musicale per strumento a tastiera – clavicembalo o organo – oppure per strumento solista – violino, oboe, violoncello ecc. – eventualmente accompagnato da altro strumento (cd continuo); e strutturato come raccolta di variazioni preceduta dall’esposizione del tema prescelto dal compositore.

Esempi in tal senso si ritrovano in:

  • Girolamo Frescobaldi (“Partita sopra il tema della follia” e “Cento partite sopra Passacagli“, ecc.);
  • Bernardo Pasquini (“Partite diverse di follia“, ecc.).

 

Con il passare del tempo la Partita comincia a strutturarsi come raccolta di danze e arie strumentali. Esempi in tal senso si ritrovano in:

  • Georg Friedrich Händel (2 Partite e 30 Suites,);
  • Georg Philipp Telemann (6 partite).

Tuttavia, è solo con Bach che la Partita assume tratti nuovi, ben definiti e rigorosi, in quanto questa si articola sempre in 7 parti o danze. Per questi motivi la Partita bachiana viene definita anche “Suite Tedesca”. Il prototipo delle 6 partite scritte da Bach si articola un/una:

  1. Pezzo introduttivo.
  2. Allemanda.
  3. Corrente.
  4. Sarabanda.
  5. Una danza a scelta: minuetto, passepied, rondò o gavotta.
  6. Una seconda danza a scelta, come al punto precedente.
  7. Giga.

La Partita BWV 825 è la prima delle 6, composte tra il 1726 e il 1730 e pubblicate nel Clavier-Übung. Più in particolare, la prima partita si compone di un/una:

  • Praeludium.
  • Allemanda.
  • Corrente.
  • Sarabanda.
  • Minuetto I e Minuetto II.
  • Giga.

La tonalità scelta da Bach – si bemolle maggiore – conferisce alla Prima Partita un carattere sereno, vivace e cristallino.

Praeludium dalla Suite BWV 825

Il Praeludium è il brano che apre la suite ed è scritto in forma polifonica e libera. Le 3 voci,

infatti, si muovono liberamente intrecciandosi nell’esposizione del soggetto.

L’Allemanda è la prima danza della Partita, scritta in stile polifonico a 3 voci ed in tempo “Allegro moderato”.

La Corrente è la seconda danza della Partita, in tempo “vivace” e a 2 voci. L’originalità di questo brano sta nel ritmo utilizzato da Bach. Il soggetto, infatti, è caratterizzato da terzine  che si susseguono senza interruzione dall’inizio sino alla conclusione del brano, mentre l’accompagnamento è caratterizzato dal ripetersi di un ritmo puntato. La combinazione di questi elementi, uniti alla tonalità di impianto dell’opera, conferiscono a questa Corrente un senso di gioia profonda ed incontenibile.

La Sarabanda è la terza danza della suite. Si tratta di una forma musicale antica, lenta e solenne.

I Minuetto I e II sono rispettivamente le danze quarta e quinta, eseguite senza soluzione di continuità, quasi si trattasse di un unico brano.

La Giga, infine, chiude la Partita. Tra tutte le parti, è senz’altro il brano più appariscente della suite in quanto richiede all’esecutore grande destrezza a causa dei repentini cambi di registro e dalla necessità di dover continuamente incrociare le mani.

Qui di seguito alcune proposte di ascolto:

  1. Sokolov – Bach: Partita No. 1 in B-flat Major, BWV 825;
  2. Partita No. 1 in B flat Major, BWV825 [Glenn Gould piano];
  3. J. S. Bach Partita No. 1 BWV 825, Scott Ross [harpsichord];
  4. Karl Richter – Partita No. 1 in B flat Major – BWV 825.

… buon ascolto!

Stefano Donatelli

Ezio Bosso – La musica come atto d’amore

Non posso permettermi di parlare di musica o dei compositori, siano essi classici o moderni, perché non ne ho la competenza e certamente scriverei stupidaggini. Potrei forse descrivere le emozioni che provo quando ascolto dei brani di musica classica oppure le parole di una canzone. Ma sono sensazioni così personali ed intime che non sono capace di scriverne senza banalizzare. Allora prendo in prestito le parole di un pianista, compositore e direttore d’orchestra, che purtroppo ci ha lasciati troppo presto, il Maestro Ezio Bosso. Parole che ti entrano nel cuore e non se ne escono più.

Sei d’accordo con chi definisce “classica” la tua musica?

La voce è un po’ incerta, le parole escono un poco frammentate a causa della malattia, ma proprio per questo sono più autentiche ed emozionanti.

Non sono nemmeno d’accordo con chi la definisce mia. Per me la musica non è di nessuno. Chi mette le mani chi la scrive non è…..

Certo Bach è Bach, poi diventa Ezio quando la suona, Paolo quando la ascolta..

E’ nostra! La musica è nostra, non è di uno. A me quando uno mi dice ti piace la mia musica?… Se posso ascoltarla..se è tua. ..se mi lasci.

E’ questa la magia.

Chi scrive la musica la scrive per lasciarla a qualcun altro.

E’ un atto d’amore.

Le parole continuano ad uscire con quell’incedere claudicante ma che trasudano amore e profonda passione.

Beethoven noi lo vediamo sempre come quel mezzo busto un po’ arrabbiato e invece era un uomo estremamente libero.

Era un uomo.. io lo dico sempre noi che..… io appartengo a quella musica impropriamente chiamata classica che io chiamo libera perché nel momento in cui la scrivo è di tutti.

Beethoven era una persona, noi suoniamo l’esperienza la vita l’amore la storia di una persona ogni volta.

E lui era uno libero, proprio libero, lui professava di essere libero, di stare nelle regole ma migliorarle, cambiarle.”

un mio piccolo contributo per ricordare Ezio Bosso.
Carboncino e matita bianca su cartoncino nero

E immaginandoti di fare un tuffo nel passato e di trovarti difronte al tuo padre musicale cosa gli suoneresti?

Un brano che mi ha cambiato la vita.

Un brano che da piccolo volevo suonare a tutti i costi….a tutti i costi.

I maestri non me la facevano suonare perché ero troppo piccolo, e io di nascosto sono andato a comprare la partitura.”

Un brano che già Beethoven non voleva più suonare perché diventato troppo popolare.

E’ uno dei nostri difetti, ci critichiamo tanto che quando un brano piace a tutti allora no, no… non lo voglio più fare, perché è paura no…”

E allora gli suoneresti proprio questo brano?

Si, uno perché gli direi, ti rendi conto di cosa hai scritto? Perché poi tutti si sono basati su questa cosa. E’ come se lui avesse viaggiato nel futuro….

e in più ha spinto un bambino a fare….

….E ora è il momento della musica suonata delle note che escono dal pianoforte e ti entrano dentro e ti arrivano dirette al cuore e scatenano emozioni forti. Perché è questo che sento quando ascolto “Al chiaro di Luna” di Beethoven, e fantastico nella mia mente di essere io al pianoforte e che, come dice Ezio, in quel momento quella musica sia mia.

Rinaldo Chiodini

Pino Daniele: “’o blues napulitano”

Sei anni fa a gennaio moriva all’età di 59 anni un grande della musica napoletana moderna: Pino Daniele.

Egli ha avuto il merito di rivoluzionare la musica napoletana proprio in un periodo storico in cui essa attraversava una crisi profonda. Il periodo d’oro della canzone napoletana era finito da parecchi decenni ed anche il Festival di Napoli appariva già come un ricordo archiviato. Si sentiva la necessità di modernizzare la melodia almeno fino al limite del possibile.

La tecnica compositiva di Pino Daniele è stata influenzata dalla musica rock, dal jazz di Louis Armstrong, dal chitarrista George Benson e soprattutto dal blues. Questi generi americani sono sempre stati presenti in tante sue canzoni napoletane ed anche italiane.

Nato nel Quartiere Porto di Napoli il 19 marzo 1955, Pino Daniele era primogenito di sei figli. Durante la sua infanzia conosce Enzo Gragnaniello.

Appassionato alla musica fin da piccolo, Pino imparò a suonare la chitarra da autodidatta, ed incluse nella sua musica aspetti del contesto sessantottino che guideranno l’espressione artistica del cantautore negli anni successivi.

Approdò al gruppo “Napoli Centrale” nel 1976, anno in cui pubblicò il suo primo 45 giri “Che calore”.

L’anno della sua svolta artistica avviene nel 1977. In questo anno pubblica diverse canzoni che segneranno la sua carriera come “Napule è”, “Terra mia” e “Na tazzulella e cafè”.

Importante fu il sodalizio con il sassofonista James Senese. Egli avrebbe contribuito alla crescita musicale di Pino Daniele.

Altre celebri canzoni di quel periodo datate 1979, furono: “Je so pazzo”, “Je sto vicino a te”, “Chi tene o’ mare”, “E cerca e me capì”, “Basta na jurnata e sole” e “Putesse essere allero”.

Gli anni ’80 furono anni fondamentali per l’artista napoletano: il 27 giugno 1980 suonò allo stadio di San Siro a Milano con Bob Marley davanti a 80 mila persone e l’anno dopo egli tenne un concerto in Piazza del Plebiscito a Napoli di fronte a 200 mila spettatori.

Di quegli anni non dobbiamo dimenticare alcune sue pietre miliari: “A me me piace ‘o blues” e “Quanno chiove”, entrambe composte nel 1980 e “Bella ‘mbriana” (1982).

Compose anche alcune colonne sonore rimaste famose nel panorama del cinema italiano. Tra le più celebri ricordiamo “Assaje”, interpretata dall’attrice Lina Sastri per il film “Mi manda Picone” (1983) di Nanny Loy, (le restanti musiche del film sono del batterista Tullio De Piscopo), “Ricomincio da Tre” (1981), “Le vie del Signore sono finite” (1987) e “Pensavo fosse amore, invece era un calesse” (1991); questi ultimi tre film furono diretti da Massimo Troisi.

Negli anni ’90 Pino Daniele ridusse il numero dei suoi concerti per motivi di salute . Di quegli anni diventarono famose canzoni come “Quando” (1991), composta per il film già citato “Pensavo fosse amore, invece era un calesse” di Massimo Troisi”, “O ssaje comme fa o’core” (1991), e “’O scarrafone” (1991).

Nonostante la rottura con la melodia classica napoletana, Pino Daniele restò fedele alle sue radici. Infatti nel 1991 fece interpretare al cantante Roberto Murolo la canzone “Lazzari felici” scritta sette anni prima e pubblicata nell’album “Musicante” (1984).

Il suo successo commerciale arrivò nella seconda metà degli anni ’90 con gli album: “Non calpestare i fiori nel deserto” (1995), e “Dimmi cosa succede sulla terra” (1997). Quest’ultimo risultò il disco più venduto in Italia per otto settimane consecutive, arrivando a vincere l’edizione del Festivalbar 1997 con il brano “Che male c’è”.

Nei primi anni duemila le canzoni di Pino Daniele sono contaminate dalla melodia nordafricana come possiamo notare nelle musiche dell’album “Medina” pubblicato dalla BMG-Ricordi nel febbraio del 2001.

Tra le canzoni più celebri di questo album ricordiamo “Via Medina”, “Mareluna”, “Lacrime di sale” e “Senza ‘e te”.

Ma nel 2004 il cantautore abbandonò le sonorità nordafricane mirando altrove. Qui grazie all’aiuto del Peter Erskine Trio, pubblicò l’album “Passi d’autore”. Le canzoni di questo album presentano una coloritura jazz alternata al sapore barocco dei madrigali cinquecenteschi, (soprattutto di quelli del compositore napoletano del ‘500 Gesualdo da Venosa). Tra le più significative ricordiamo “Gli stessi sguardi”, “Ali di cera” e “Aspettando l’aurora”. Inoltre questo album contiene il brano “Pigro” presentato al Festivalbar di quello stesso anno.

Pino Daniele e James Senese

Nel 2008, in occasione del trentennale della sua carriera pubblicò insieme a Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Joe Amoruso e Rino Zurzolo l’album “Ricomincio da 30” dedicato all’amico Massimo Troisi, scomparso nel 1994.

Sempre nello stesso anno tenne a Napoli a Piazza del Plebiscito un celebre concerto che riscosse un’eco entusiastica. A questa manifestazione parteciparono numerosi ospiti come Giorgia, Irene Grandi, Avion Travel, Gigi D’Alessio e Nino D’Angelo.

Nel 2010 collaborò anche con altri grandi della musica americana come Eric Clapton.

Con lui si esibì al Toyota Park di Chicago. Nello stesso anno duettò con Mina, Franco Battiato, J-Ax e Mario Biondi.

La sera del 4 gennaio 2015 Pino Daniele muore a soli 59 anni a causa di un infarto nella casa di Orbetello in Toscana.

Con la scomparsa di Pino Daniele, si perde un punto di riferimento nel panorama musicale italiano e napoletano; scompare un vero cantautore rivoluzionario, che è stato capace di rinnovare la tradizionale canzone melodica partenopea contaminandola con sonorità jazz, rock e blues. Infatti, l’artista aveva originato soprattutto negli anni ’80 un vero e proprio fermento innovativo a Napoli, aprendo la strada ad altri cantanti. Egli è stato capace di raccontare con grande maestria attraverso le sue canzoni la rabbia, il malcontento, la povertà e la bellezza soprattutto di quella città dove era nato e alla quale era molto legato e che spesso nell’immaginario collettivo italiano era stata considerata come l’aveva definita Goethe: “Napoli, un paradiso abitato da diavoli”.

Francesco Furore

Boellman – Spiritualità dai suoni gotici

Sandro Botticelli – angeli cantanti (particolare)-1477

Il 28 gennaio 2006 mi trovavo nella chiesa del mio paese, Adro, seduto sui banchi, pronto per assistere all’ultimo concerto in occasione del restauro del nostro organo Pacifico Inzoli del 1891. Avevo 9 anni e ricordo come la navata fosse gremita di gente intenta a vociferare, finché giunse il momento delle presentazioni e poi il silenzio in attesa del concerto. Io ero curioso di sentire il suono di quello strumento enorme, bizzarro, ma allo stesso tempo affascinante. Conoscevo pochissimo la musica: avevo iniziato a “suonare” pianoforte solo due anni prima. Provai a leggere il programma e tra i nomi riconobbi soltanto quello di Verdi, di cui si riproponevano alcune trascrizioni per organo dalla sue opere più celebri. Il nome del primo compositore in programma mi era sconosciuto, non riuscivo nemmeno a leggerlo: era in francese. Tutt’a un tratto dal silenzio ci fu uno scoppio di suono. L’organista, di cui vedevo solo la testa, aveva iniziato a suonare: era un suono fortissimo che mai avevo sentito prima dal vivo. Mi ci volle un attimo per abituarmi, ma fu bellissimo. Il concerto era iniziato con la Suite Gothique (op.25) di Léon Boëllmann (1862-1897). Rimasi subito affascinato dalla musica che usciva da tutte quelle canne, non me ne capacitavo, ma poi mi abbandonai ad ascoltare quella melodia che subito mi aveva colpito; mi sembrava di essere in una grande cattedrale. Nient’altro ricordo di quel concerto.

Il tempo passò e, grazie allo studio della musica e del pianoforte, nel 2012 il parroco mi chiese di diventare organista. Poco dopo aver cominciato a prendere confidenza con l’organo e i suoi registri, quasi per caso trovai il CD che mia mamma aveva comprato la serata del concerto: subito lo ascoltai e con enorme piacere riscoprì la Suite di Boëllmann, di cui poi stampai lo spartito, deciso a impararmi almeno i primi due pezzi che mi avevano così affascinato, riconfermando quella bella sensazione che avevo ricevuto da bambino. Riascoltandola sentivo come tutta fosse improntata alla musica gotica: la mia ingenue impressione era giusta. Boëllmann, le cui composizioni includono lavori per organopianofortemusica da camera e corali, ha composto la Suite Gothique nel 1895, esattamente due anni prima che la sua giovane vita terminasse. Il primo pezzo della Suite si apre con un’introduzione corale in Do minore che immerge l’ascoltatore in un Medioevo gotico, cupo, in cui il suono sembra prolungarsi nelle ampie navate di una

Notre Dame Parigi

cattedrale dalle sontuose vetrate, fra pinnacoli, archi rampanti e capitelli scolpiti con figure mostruose: esattamente l’immagine dell’oscuro Medioevo romantico che Victor Hugo ha tramandato nel suo celebre romanzo Notre Dame de Paris, pubblicato nel 1831. Di tale influsso risentiva ancora sicuramente Boëllmann, nella Francia di fine Ottocento. Il secondo pezzo della Suite, il Minuetto Gotico in Do maggiore, ci conduce invece in un Medioevo più fiabesco, animato da sentimenti più solari data la tonalità in maggiore. Il compositore, sfruttando abilmente nel tema una successione alternata di accordi maggiori e minori, crea un’atmosfera antica e fantastica, sempre misteriosa, che lascia spazio anche a melodie dolci in cui il cambio di tonalità contribuisce a crearne una

Leon Boellman 1862-1897

cornice onirica e sfarzosa insieme. Il terzo pezzo dell’opera, intitolato Prière a Notre-Dame, in Lab maggiore, è concentrato sull’organo espressivo, perfettamente in accordo con le intenzioni del brano musicale che si caratterizza come elevazione spirituale a Dio. Sembra quasi la quiete prima della tempesta che prorompe nell’ultima parte della Suite, la Toccata in Do minore, il cui tema teso e a tratti inquietante viene continuamente ripetuto per tutta la durata del pezzo, fino alla fine in cui un’esplosione di suono termina la Suite in Do maggiore. Queste sono solo alcune delle caratteristiche che hanno contribuito a fare della Suite Gothique un’opera cardine del repertorio organistico. Essa è la testimonianza di un compositore di successo che, più che nella difficoltà tecnica dei suoi pezzi, amava forse metterci l’anima di nostalgico sognatore di un passato idealizzato.

Marco Grassi (studente)

             clicca  per ascoltare

Rachmaninov – Preludio in do# minore

Il preludio in do diesis (#) minore op.3 n.2, è forse una delle composizioni più famose di Sergej Rachmaninov. Questo preludio fu una delle prime composizioni del giovane Rachmaninov, dopo essersi diplomato al conservatorio di Mosca il 29 maggio 1892. Questo brano venne eseguito per la prima volta il 26 settembre 1892 al festival “Moscow Electrical Exhibition”.

Sergei Rachmaninov in uno dei suoi concerti

Una recensione del concerto, soffermandosi su questo preludio, notò che aveva “acceso l’entusiasmo”. Da quel momento il brano divenne il pezzo più famoso di Rachmaninov. Il cugino del compositore, anch’egli pianista, Aleksandr Ziloti lo rese celebre nel mondo occidentale. Nell’autunno del 1898 Rachmaninov fece concerti in Europa e negli Stati Uniti, con un programma contente il questo preludio.

Dopo poco tempo le testate londinesi pubblicarono diversi edizioni con titoli come “The Burning of Moscow” (il rogo di Mosca), “The Day of Judgement” (il giorno del giudizio) e “The Moscow Waltz” (il valzer di Mosca). Negli Stati Uniti accadde la medesima cosa, con titoli come “The Bells of Moscow” (le campane di Mosca). Il brano divenne così famoso che ci si riferiva ad esso come il “preludio”, ed essendo un brano apprezzato dal pubblico, quando ne chiedeva il bis urlava “C sharp”, ovvero do diesis.

Questo preludio è suddiviso in tre parti (ABA) ed una una coda, ovvero una breve sezione musicale che serve da conclusione. La tonalità dominante, il do diesis minore, viene introdotta da tre note consecutive in ottava, suonate in fortissimo (parte rossa). Questo motivo cadenzale si ripete per tutto il preludio.

Nella terza battuta la dinamica cambia in “ppp” (pianissimo) per la presentazione del tema (in verde).

 

La seconda parte è molto marcata dall’agitato, ed è introdotta da terzine cromatiche.

La terza parte, invece, ripropone il tema principale in fortissimo, utilizzando quadriadi (accordi composti da quattro note), dividendo la scrittura su quattro pentagrammi.

Il pezzo termina con una coda composta da sette battute che concludono tristemente il brano.

Giovanni Signorelli

 

Sergei Prokofiev – Toccata op.11

Il 1912 – anno di composizione della Toccata op. 11 – è stato molto prolifico per Prokofiev poiché hanno visto la luce anche il concerto il concerto nr. 1 per pianoforte (op. 10), le sonate 2 (op. 14) e 3 (op. 28) nonché i 4 pezzi op. 4 e i 10 pezzi op. 12. Sempre nel 1912 il compositore ha cominciato a lavorare anche al Concerto per pianoforte nr. 2 (op. 16) e ai Sarcasmi op. 17. 

Nella toccata op. 11 troviamo tutti gli elementi che caratterizzano questo genere nonché l’opera e la personalità di Prokofiev.

Il brano è scritto in re minore ma non può dirsi propriamente tonale in quanto non si trovano le tipiche successioni armoniche che caratterizzano il concetto di tonalità (progressioni II, V, I). Forse è più corretto parlare di “accostamenti”. 

Gli accordi di D-, G-, C-, B- e Eb- che costituiscono il telaio fondamentale dell’intera composizione, infatti, vengono accostati incessantemente e sovrapposti quasi fossero forme geometriche.

Qui di seguito un esempio.

Prokofiev utilizza ampiamente il cromatismo sia per creare brevi melodie, sia per raccordare i diversi episodi sia per armonizzare i pochi elementi tematici. L’effetto che ne deriva è particolarmente spettacolare poiché conferisce alla toccata continua mobilità e instabilità. Qui di seguito alcuni esempi:

Esempio 1

 

Esempio 2

 

Esempio 3

 

Esempio 4

Gli elementi tematici/melodici chiaramente riconoscibili sono pochi. Qui di seguito i principali:

Esempio 1

 

Esempio 2

Dal punto di vista ritmico il brano è caratterizzato da accenti serrati grazie all’utilizzo dei 2/4 e di battute riempite con 8 incessanti pulsazioni di sedicesimi.

Per concludere qui di seguito alcuni suggerimenti di ascolto.

Le immagini sono tratte dall’edizione Moscow: P. Jurgenson.

 

Stefano Donatelli

YUJA WANG PROKOFIEV TOCCATA

VIDEO: Martha Argerich Prokofiev Toccata Op. 11

Vladimir Horowitz – Prokofiev Toccata D minor

Sanremo: il Festival dell’unificazione nazionale

Dopo la lotta partigiana e la Resistenza, che come scriveva lo scrittore friulano Pier Paolo Pasolini, avevano unificato l’Italia più del Risorgimento, secondo molti sociologi della seconda metà del ‘900, il Festival di Sanremo aveva ancora di più rinsaldato quei legami tra nord e sud già evidenziatisi nell’emigrazione interna di massa degli anni ’50 e ’60 del Novecento. Inoltre il Festival costituiva un collante tra le classi sociali, distanziate culturalmente dal fascismo e dalla guerra.

Correva l’anno 1951. La televisione non era ancora nata. Per la maggior parte degli italiani i soldi erano pochi e difficilmente ci si poteva permettere il cinema, il teatro ed altre evasioni. Allora la radio era il primo grande strumento per sognare.

La radio trasmetteva commedie, concerti, opere liriche, formando la cultura di generazioni intere, ma anche il Festival di Sanremo. Il primo si svolse al Salone delle feste del Casinò di Sanremo e fu condotto da Nunzio Filogamo, un presentatore siciliano che si può considerare il “padre ispiratore di Pippo Baudo”. Erano in gara 20 canzoni, mentre a concorrere furono solamente tre interpreti: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. Vinse la canzone “Grazie dei Fiori” di S. Seracini interpretata dalla bolognese Nilla Pizzi.

Nilla Pizzi al primo Festival di Sanremo nel 1951

L’anno dopo vinse ancora una volta Nilla Pizzi con “Vola colomba” di Cherubini e Concina. Nel 1953 è la volta di Carla Boni e Flo Sandon’s, che vincono con la canzone “Viale d’autunno” del maestro G. D’Anzi.

Lo spartiacque all’interno del Festival di Sanremo è rappresentato dal passaggio dalla radio alla televisione. La prima trasmissione televisiva risale al 3 gennaio 1954. Questa edizione sarà vinta da Giorgio Consolini e Gino Latilla con la canzone “Tutte le mamme” di Bertini e Falcocchio. L’anno dopo sarà la volta di Claudio Villa, cantante già affermato, che vincerà il Festival con la canzone “Buongiorno tristezza”.

Senza fare la cronistoria del Festival di Sanremo, mi soffermerò sugli anni più significativi.

Arriviamo al 1958: dopo anni di escalation di audience. I televisori pian piano arrivano nelle case degli italiani. In quell’anno muore papa Pio XII. Sarà eletto il papa bergamasco Angelo Roncalli con il nome di Giovanni XXIII.

Con il successo della televisione, comincia ad appannarsi il mito della Callas e della musica lirica trasmessa frequentemente alla radio e riservata ad una ristretta élite che frequentava il teatro. Questo tornava a tutto vantaggio del Festival di Sanremo, che veniva seguito da tutti gli strati sociali di ogni parte d’Italia.

Nel 1958 a Sanremo è il momento di un giovane cantante pugliese che cantava spesso in napoletano e in siciliano: Domenico Modugno. Ma da quel momento con la canzone “Nel blu dipinto di blu”, la sua fama travalicherà non

Domenico Modugno-Nel blu dipinto di blu

solo i confini regionali, ma anche quelli nazionali. Quel brano sarà riconosciuto in tutto in mondo con il titolo di “Volare”. Con il debutto a Sanremo di Domenico Modugno in coppia con Johnny Dorelli, si afferma la figura del cantautore. L’enorme successo,  porterà la vendita di quasi un milione di dischi. “Volare”, canzone di rottura, non fu accolta all’inizio dalla critica, ma farà la storia della musica italiana e mondiale. Tradotta e cantata in tutte le lingue, sarà interpretata tra gli altri da Louis Armstrong e Frank Sinatra, ed ancora oggi è considerata tra le più conosciute di tutti i tempi.

Altro anno da considerare sarà il 1968, anno essenziale nell’immaginario socio-culturale del XX secolo. L’anno prima una tragedia avvolta nel mistero si abbatteva su Sanremo: moriva suicida il giovane cantautore genovese Luigi Tenco, il quale aveva debuttato con la canzone “Ciao amore ciao” insieme alla cantante italo-francese Dalida. Il 1968-1969 fu il biennio delle esibizioni dei cantanti stranieri.

Sergio Endrigo e Roberto Carlos

Molti cantanti stranieri si cimentano insieme ai nostri nella ripetizione delle canzoni italiane, portando una ventata di modernità e di originalità. Ad esempio Wilson Pickett che insieme a Fausto Leali canta “Deborah” in puro stile rhythm and blues, oppure Sergio Endrigo e Roberto Carlos interpretano in chiave melodica “Canzone per te”. Oppure in chiaro stile jazz “Mi va di cantare”, cantata da Louis Armstrong e Lara Saint Paul. “La voce del silenzio” cantata da Tony del Monaco” e Dionne Warwich, sarà un altro successo anche perché verrà riproposta da Mina. Del 1969 non dobbiamo dimenticare “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, sempre di Endrigo, e “Un’avventura” cantata da Wilson Pickett in coppia con Lucio Battisti, scritta insieme a Mogol.

Negli anni ’70 il Festival di Sanremo subisce un declino a vantaggio della musica pop-rock anglosassone e di quella impegnata.

Sono gli anni della contestazione giovanile, delle lotte sindacali e dell’emancipazione femminile. Sanremo non è in cima ai pensieri della gente, preoccupata anche per l’inflazione e il terrorismo rosso e nero, che sfocerà nel delitto Moro (1978).

Tra le canzoni sanremesi più famose e significative di quel decennio ricordiamo “La prima cosa bella” (1970) cantata da Nicola di Bari e dai Ricchi e poveri, “Che sarà” (1971) cantata sempre dai Ricchi e poveri in coppia con José Feliciano, “4/3/’43” (1971) e “Piazza grande” (1972) del compianto Lucio Dalla e “Gianna” (1978) di Rino Gaetano.

Il Festival degli anni ’80 manifestò dei segnali di rottura: l’orchestra viene soppiantata dalle basi registrate; inoltre vi furono edizioni in cui i cantanti si esibivano in playback. Questo fatto portò la Rai a riappropriarsi del Festival grazie anche alla presenza di Pippo Baudo. La società si riprende lentamente dalla crisi del recente passato, anche a scapito della qualità delle canzoni.

Pippo Baudo e Eros Ramazzotti-Sanremo 1984

Anche negli anni ’80 a Sanremo sono state rappresentate canzoni rimaste celebri nella musica italiana come “Ancora” (1981) di De Crescenzo, “L’italiano” (1983) di Toto Cutugno, “Adesso tu” (1986) di Eros Ramazzotti, “Si può dare di più” (1987) di Morandi-Ruggeri-Tozzi, “Perdere l’amore” (1988) cantata da Massimo Ranieri, oppure “Cosa resterà degli anni ottanta” (1989) interpretata da Raf.

Gli anni ’90 consacrarono il Festival di Sanremo come appuntamento fisso per la società italiana. Con il ritorno dell’orchestra sul palcoscenico dell’Ariston, la scenografia si arricchisce e trionfa. Canzoni celebri degli ultimi anni saranno: “Uomini soli” (1990) dei Pooh, “Non amarmi”(1992) cantata da Aleandro Baldi e Francesca Alotta, “La solitudine” (1993) cantata da Laura Pausini, “Come saprei” (1995) cantata da Giorgia, “Con te partirò” (1995) cantata dal tenore Andrea Bocelli e “Vorrei incontrarti fra cent’anni” (1996) cantata da Ron e Tosca.

Teatro Ariston – Sanremo

Nelle edizioni degli anni 2000, con la presenza delle nuove proposte, prevarranno le logiche del web, con cantanti sostenuti ed avvalorati dalla tecnologia moderna.

Anche se penso che Sanremo abbia acquisito nel tempo altri obiettivi oltre le forme artistiche, continua ad essere seguito da milioni di telespettatori. A mio avviso però lo sfoggio di vestiti, tatuaggi, etc., con l’intento di adattarsi ai gusti del proprio pubblico, prevale sulla musicalità e sulla poesia dei testi. Personalmente preferirei che una manifestazione così importante in tutto il mondo e icona della canzone che rappresenta la storia degli italiani, non si adeguasse a logiche consumistiche e che essa fosse strettamente orientata alla bellezza della musica.

Francesco Furore