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Boellman – Spiritualità dai suoni gotici

Sandro Botticelli – angeli cantanti (particolare)-1477

Il 28 gennaio 2006 mi trovavo nella chiesa del mio paese, Adro, seduto sui banchi, pronto per assistere all’ultimo concerto in occasione del restauro del nostro organo Pacifico Inzoli del 1891. Avevo 9 anni e ricordo come la navata fosse gremita di gente intenta a vociferare, finché giunse il momento delle presentazioni e poi il silenzio in attesa del concerto. Io ero curioso di sentire il suono di quello strumento enorme, bizzarro, ma allo stesso tempo affascinante. Conoscevo pochissimo la musica: avevo iniziato a “suonare” pianoforte solo due anni prima. Provai a leggere il programma e tra i nomi riconobbi soltanto quello di Verdi, di cui si riproponevano alcune trascrizioni per organo dalla sue opere più celebri. Il nome del primo compositore in programma mi era sconosciuto, non riuscivo nemmeno a leggerlo: era in francese. Tutt’a un tratto dal silenzio ci fu uno scoppio di suono. L’organista, di cui vedevo solo la testa, aveva iniziato a suonare: era un suono fortissimo che mai avevo sentito prima dal vivo. Mi ci volle un attimo per abituarmi, ma fu bellissimo. Il concerto era iniziato con la Suite Gothique (op.25) di Léon Boëllmann (1862-1897). Rimasi subito affascinato dalla musica che usciva da tutte quelle canne, non me ne capacitavo, ma poi mi abbandonai ad ascoltare quella melodia che subito mi aveva colpito; mi sembrava di essere in una grande cattedrale. Nient’altro ricordo di quel concerto.

Il tempo passò e, grazie allo studio della musica e del pianoforte, nel 2012 il parroco mi chiese di diventare organista. Poco dopo aver cominciato a prendere confidenza con l’organo e i suoi registri, quasi per caso trovai il CD che mia mamma aveva comprato la serata del concerto: subito lo ascoltai e con enorme piacere riscoprì la Suite di Boëllmann, di cui poi stampai lo spartito, deciso a impararmi almeno i primi due pezzi che mi avevano così affascinato, riconfermando quella bella sensazione che avevo ricevuto da bambino. Riascoltandola sentivo come tutta fosse improntata alla musica gotica: la mia ingenue impressione era giusta. Boëllmann, le cui composizioni includono lavori per organopianofortemusica da camera e corali, ha composto la Suite Gothique nel 1895, esattamente due anni prima che la sua giovane vita terminasse. Il primo pezzo della Suite si apre con un’introduzione corale in Do minore che immerge l’ascoltatore in un Medioevo gotico, cupo, in cui il suono sembra prolungarsi nelle ampie navate di una

Notre Dame Parigi

cattedrale dalle sontuose vetrate, fra pinnacoli, archi rampanti e capitelli scolpiti con figure mostruose: esattamente l’immagine dell’oscuro Medioevo romantico che Victor Hugo ha tramandato nel suo celebre romanzo Notre Dame de Paris, pubblicato nel 1831. Di tale influsso risentiva ancora sicuramente Boëllmann, nella Francia di fine Ottocento. Il secondo pezzo della Suite, il Minuetto Gotico in Do maggiore, ci conduce invece in un Medioevo più fiabesco, animato da sentimenti più solari data la tonalità in maggiore. Il compositore, sfruttando abilmente nel tema una successione alternata di accordi maggiori e minori, crea un’atmosfera antica e fantastica, sempre misteriosa, che lascia spazio anche a melodie dolci in cui il cambio di tonalità contribuisce a crearne una

Leon Boellman 1862-1897

cornice onirica e sfarzosa insieme. Il terzo pezzo dell’opera, intitolato Prière a Notre-Dame, in Lab maggiore, è concentrato sull’organo espressivo, perfettamente in accordo con le intenzioni del brano musicale che si caratterizza come elevazione spirituale a Dio. Sembra quasi la quiete prima della tempesta che prorompe nell’ultima parte della Suite, la Toccata in Do minore, il cui tema teso e a tratti inquietante viene continuamente ripetuto per tutta la durata del pezzo, fino alla fine in cui un’esplosione di suono termina la Suite in Do maggiore. Queste sono solo alcune delle caratteristiche che hanno contribuito a fare della Suite Gothique un’opera cardine del repertorio organistico. Essa è la testimonianza di un compositore di successo che, più che nella difficoltà tecnica dei suoi pezzi, amava forse metterci l’anima di nostalgico sognatore di un passato idealizzato.

Marco Grassi (studente)

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Rachmaninov – Preludio in do# minore

Il preludio in do diesis (#) minore op.3 n.2, è forse una delle composizioni più famose di Sergej Rachmaninov. Questo preludio fu una delle prime composizioni del giovane Rachmaninov, dopo essersi diplomato al conservatorio di Mosca il 29 maggio 1892. Questo brano venne eseguito per la prima volta il 26 settembre 1892 al festival “Moscow Electrical Exhibition”.

Sergei Rachmaninov in uno dei suoi concerti

Una recensione del concerto, soffermandosi su questo preludio, notò che aveva “acceso l’entusiasmo”. Da quel momento il brano divenne il pezzo più famoso di Rachmaninov. Il cugino del compositore, anch’egli pianista, Aleksandr Ziloti lo rese celebre nel mondo occidentale. Nell’autunno del 1898 Rachmaninov fece concerti in Europa e negli Stati Uniti, con un programma contente il questo preludio.

Dopo poco tempo le testate londinesi pubblicarono diversi edizioni con titoli come “The Burning of Moscow” (il rogo di Mosca), “The Day of Judgement” (il giorno del giudizio) e “The Moscow Waltz” (il valzer di Mosca). Negli Stati Uniti accadde la medesima cosa, con titoli come “The Bells of Moscow” (le campane di Mosca). Il brano divenne così famoso che ci si riferiva ad esso come il “preludio”, ed essendo un brano apprezzato dal pubblico, quando ne chiedeva il bis urlava “C sharp”, ovvero do diesis.

Questo preludio è suddiviso in tre parti (ABA) ed una una coda, ovvero una breve sezione musicale che serve da conclusione. La tonalità dominante, il do diesis minore, viene introdotta da tre note consecutive in ottava, suonate in fortissimo (parte rossa). Questo motivo cadenzale si ripete per tutto il preludio.

Nella terza battuta la dinamica cambia in “ppp” (pianissimo) per la presentazione del tema (in verde).

 

La seconda parte è molto marcata dall’agitato, ed è introdotta da terzine cromatiche.

La terza parte, invece, ripropone il tema principale in fortissimo, utilizzando quadriadi (accordi composti da quattro note), dividendo la scrittura su quattro pentagrammi.

Il pezzo termina con una coda composta da sette battute che concludono tristemente il brano.

Giovanni Signorelli

 

Sergei Prokofiev – Toccata op.11

Il 1912 – anno di composizione della Toccata op. 11 – è stato molto prolifico per Prokofiev poiché hanno visto la luce anche il concerto il concerto nr. 1 per pianoforte (op. 10), le sonate 2 (op. 14) e 3 (op. 28) nonché i 4 pezzi op. 4 e i 10 pezzi op. 12. Sempre nel 1912 il compositore ha cominciato a lavorare anche al Concerto per pianoforte nr. 2 (op. 16) e ai Sarcasmi op. 17. 

Nella toccata op. 11 troviamo tutti gli elementi che caratterizzano questo genere nonché l’opera e la personalità di Prokofiev.

Il brano è scritto in re minore ma non può dirsi propriamente tonale in quanto non si trovano le tipiche successioni armoniche che caratterizzano il concetto di tonalità (progressioni II, V, I). Forse è più corretto parlare di “accostamenti”. 

Gli accordi di D-, G-, C-, B- e Eb- che costituiscono il telaio fondamentale dell’intera composizione, infatti, vengono accostati incessantemente e sovrapposti quasi fossero forme geometriche.

Qui di seguito un esempio.

Prokofiev utilizza ampiamente il cromatismo sia per creare brevi melodie, sia per raccordare i diversi episodi sia per armonizzare i pochi elementi tematici. L’effetto che ne deriva è particolarmente spettacolare poiché conferisce alla toccata continua mobilità e instabilità. Qui di seguito alcuni esempi:

Esempio 1

 

Esempio 2

 

Esempio 3

 

Esempio 4

Gli elementi tematici/melodici chiaramente riconoscibili sono pochi. Qui di seguito i principali:

Esempio 1

 

Esempio 2

Dal punto di vista ritmico il brano è caratterizzato da accenti serrati grazie all’utilizzo dei 2/4 e di battute riempite con 8 incessanti pulsazioni di sedicesimi.

Per concludere qui di seguito alcuni suggerimenti di ascolto.

Le immagini sono tratte dall’edizione Moscow: P. Jurgenson.

 

Stefano Donatelli

YUJA WANG PROKOFIEV TOCCATA

VIDEO: Martha Argerich Prokofiev Toccata Op. 11

Vladimir Horowitz – Prokofiev Toccata D minor

Sanremo: il Festival dell’unificazione nazionale

Dopo la lotta partigiana e la Resistenza, che come scriveva lo scrittore friulano Pier Paolo Pasolini, avevano unificato l’Italia più del Risorgimento, secondo molti sociologi della seconda metà del ‘900, il Festival di Sanremo aveva ancora di più rinsaldato quei legami tra nord e sud già evidenziatisi nell’emigrazione interna di massa degli anni ’50 e ’60 del Novecento. Inoltre il Festival costituiva un collante tra le classi sociali, distanziate culturalmente dal fascismo e dalla guerra.

Correva l’anno 1951. La televisione non era ancora nata. Per la maggior parte degli italiani i soldi erano pochi e difficilmente ci si poteva permettere il cinema, il teatro ed altre evasioni. Allora la radio era il primo grande strumento per sognare.

La radio trasmetteva commedie, concerti, opere liriche, formando la cultura di generazioni intere, ma anche il Festival di Sanremo. Il primo si svolse al Salone delle feste del Casinò di Sanremo e fu condotto da Nunzio Filogamo, un presentatore siciliano che si può considerare il “padre ispiratore di Pippo Baudo”. Erano in gara 20 canzoni, mentre a concorrere furono solamente tre interpreti: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. Vinse la canzone “Grazie dei Fiori” di S. Seracini interpretata dalla bolognese Nilla Pizzi.

Nilla Pizzi al primo Festival di Sanremo nel 1951

L’anno dopo vinse ancora una volta Nilla Pizzi con “Vola colomba” di Cherubini e Concina. Nel 1953 è la volta di Carla Boni e Flo Sandon’s, che vincono con la canzone “Viale d’autunno” del maestro G. D’Anzi.

Lo spartiacque all’interno del Festival di Sanremo è rappresentato dal passaggio dalla radio alla televisione. La prima trasmissione televisiva risale al 3 gennaio 1954. Questa edizione sarà vinta da Giorgio Consolini e Gino Latilla con la canzone “Tutte le mamme” di Bertini e Falcocchio. L’anno dopo sarà la volta di Claudio Villa, cantante già affermato, che vincerà il Festival con la canzone “Buongiorno tristezza”.

Senza fare la cronistoria del Festival di Sanremo, mi soffermerò sugli anni più significativi.

Arriviamo al 1958: dopo anni di escalation di audience. I televisori pian piano arrivano nelle case degli italiani. In quell’anno muore papa Pio XII. Sarà eletto il papa bergamasco Angelo Roncalli con il nome di Giovanni XXIII.

Con il successo della televisione, comincia ad appannarsi il mito della Callas e della musica lirica trasmessa frequentemente alla radio e riservata ad una ristretta élite che frequentava il teatro. Questo tornava a tutto vantaggio del Festival di Sanremo, che veniva seguito da tutti gli strati sociali di ogni parte d’Italia.

Nel 1958 a Sanremo è il momento di un giovane cantante pugliese che cantava spesso in napoletano e in siciliano: Domenico Modugno. Ma da quel momento con la canzone “Nel blu dipinto di blu”, la sua fama travalicherà non

Domenico Modugno-Nel blu dipinto di blu

solo i confini regionali, ma anche quelli nazionali. Quel brano sarà riconosciuto in tutto in mondo con il titolo di “Volare”. Con il debutto a Sanremo di Domenico Modugno in coppia con Johnny Dorelli, si afferma la figura del cantautore. L’enorme successo,  porterà la vendita di quasi un milione di dischi. “Volare”, canzone di rottura, non fu accolta all’inizio dalla critica, ma farà la storia della musica italiana e mondiale. Tradotta e cantata in tutte le lingue, sarà interpretata tra gli altri da Louis Armstrong e Frank Sinatra, ed ancora oggi è considerata tra le più conosciute di tutti i tempi.

Altro anno da considerare sarà il 1968, anno essenziale nell’immaginario socio-culturale del XX secolo. L’anno prima una tragedia avvolta nel mistero si abbatteva su Sanremo: moriva suicida il giovane cantautore genovese Luigi Tenco, il quale aveva debuttato con la canzone “Ciao amore ciao” insieme alla cantante italo-francese Dalida. Il 1968-1969 fu il biennio delle esibizioni dei cantanti stranieri.

Sergio Endrigo e Roberto Carlos

Molti cantanti stranieri si cimentano insieme ai nostri nella ripetizione delle canzoni italiane, portando una ventata di modernità e di originalità. Ad esempio Wilson Pickett che insieme a Fausto Leali canta “Deborah” in puro stile rhythm and blues, oppure Sergio Endrigo e Roberto Carlos interpretano in chiave melodica “Canzone per te”. Oppure in chiaro stile jazz “Mi va di cantare”, cantata da Louis Armstrong e Lara Saint Paul. “La voce del silenzio” cantata da Tony del Monaco” e Dionne Warwich, sarà un altro successo anche perché verrà riproposta da Mina. Del 1969 non dobbiamo dimenticare “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, sempre di Endrigo, e “Un’avventura” cantata da Wilson Pickett in coppia con Lucio Battisti, scritta insieme a Mogol.

Negli anni ’70 il Festival di Sanremo subisce un declino a vantaggio della musica pop-rock anglosassone e di quella impegnata.

Sono gli anni della contestazione giovanile, delle lotte sindacali e dell’emancipazione femminile. Sanremo non è in cima ai pensieri della gente, preoccupata anche per l’inflazione e il terrorismo rosso e nero, che sfocerà nel delitto Moro (1978).

Tra le canzoni sanremesi più famose e significative di quel decennio ricordiamo “La prima cosa bella” (1970) cantata da Nicola di Bari e dai Ricchi e poveri, “Che sarà” (1971) cantata sempre dai Ricchi e poveri in coppia con José Feliciano, “4/3/’43” (1971) e “Piazza grande” (1972) del compianto Lucio Dalla e “Gianna” (1978) di Rino Gaetano.

Il Festival degli anni ’80 manifestò dei segnali di rottura: l’orchestra viene soppiantata dalle basi registrate; inoltre vi furono edizioni in cui i cantanti si esibivano in playback. Questo fatto portò la Rai a riappropriarsi del Festival grazie anche alla presenza di Pippo Baudo. La società si riprende lentamente dalla crisi del recente passato, anche a scapito della qualità delle canzoni.

Pippo Baudo e Eros Ramazzotti-Sanremo 1984

Anche negli anni ’80 a Sanremo sono state rappresentate canzoni rimaste celebri nella musica italiana come “Ancora” (1981) di De Crescenzo, “L’italiano” (1983) di Toto Cutugno, “Adesso tu” (1986) di Eros Ramazzotti, “Si può dare di più” (1987) di Morandi-Ruggeri-Tozzi, “Perdere l’amore” (1988) cantata da Massimo Ranieri, oppure “Cosa resterà degli anni ottanta” (1989) interpretata da Raf.

Gli anni ’90 consacrarono il Festival di Sanremo come appuntamento fisso per la società italiana. Con il ritorno dell’orchestra sul palcoscenico dell’Ariston, la scenografia si arricchisce e trionfa. Canzoni celebri degli ultimi anni saranno: “Uomini soli” (1990) dei Pooh, “Non amarmi”(1992) cantata da Aleandro Baldi e Francesca Alotta, “La solitudine” (1993) cantata da Laura Pausini, “Come saprei” (1995) cantata da Giorgia, “Con te partirò” (1995) cantata dal tenore Andrea Bocelli e “Vorrei incontrarti fra cent’anni” (1996) cantata da Ron e Tosca.

Teatro Ariston – Sanremo

Nelle edizioni degli anni 2000, con la presenza delle nuove proposte, prevarranno le logiche del web, con cantanti sostenuti ed avvalorati dalla tecnologia moderna.

Anche se penso che Sanremo abbia acquisito nel tempo altri obiettivi oltre le forme artistiche, continua ad essere seguito da milioni di telespettatori. A mio avviso però lo sfoggio di vestiti, tatuaggi, etc., con l’intento di adattarsi ai gusti del proprio pubblico, prevale sulla musicalità e sulla poesia dei testi. Personalmente preferirei che una manifestazione così importante in tutto il mondo e icona della canzone che rappresenta la storia degli italiani, non si adeguasse a logiche consumistiche e che essa fosse strettamente orientata alla bellezza della musica.

Francesco Furore

L’organo Serassi di Palosco, uno strumento di inestimabile valore storico e artistico

L’organo Serassi della nostra Parrocchia

Da qualche settimana il particolare suono che corre fra le arcate della chiesa, pervade lo spazio di echi nitidi e antichi che salgono da lontano e si perdono nel tempo.

Quanto e quale tempo, non ci è dato di sapere se non fino a quando l’agostiniano Donato Calvi nel 1676 annotava nelle sue Effemeridi (cronache degli eventi relgiosi e civili in terra bergamasca) che la Chiesa: “ Hà organo bellissimo”. Ma per presumere l’origine in tempi ancora più antichi dell’organo basti leggere (sempre in questo documento del Calvi conservato nella Biblioteca di Bergamo) dove si descrive la chiesa: “…vi è una pietra dove è scritto l’anno 1444 che si giudica il principio suo”. Quindi molto probabilmente esisteva già da tempo un organo molto bello di concezione rinascimentale adatto alla polifonia e allo stile compositivo dell’epoca. Nel 1763 vi furono importanti e radicali lavori di ampliamento della Chiesa e l’asse direzionale venne rovesciato. Venne quindi spostato l’altare, il coro, e una decina d’anni più tardi, con l’insediamento nel 1772 del nuovo arciprete, si pensò di spostare anche le sagrestie compreso l’organo.

Il nuovo parroco Rev. Federico Rossa descritto come uomo dottissimo, convocava i membri della fabbrica della Chiesa e, come attesta un documento del 5 novembre 1775, appare urgente e necessario attuare i lavori di spostamento causa: “ il notabile deterioramento de’ paramenti sacerdotali essendo la vecchia sacristia esposta all’aria tramontana che rende del tutto umida detta sacristia….anco l’Organo qual per essere pure esposto all’aria tramontana, occorrendo farlo aggiustare si devono fare frequenti e non indifferenti spese….” e quindi il tutto venne spostato da nord a sud-est “verso mattina”.

Di questo organo poco o nulla si sa, non si hanno notizie, è risaputo però fra gli esperti che in quel periodo la pregiatissima tradizione organaria lombarda e soprattutto bergamasca rappresentata in tutta Italia in modo eccelso dalla ditta dei fratelli Serassi, si ispirava oltre che al proprio originale e rinomato metodo di costruzione, anche al modello del grande organo con due tastiere costruito da un organaro fiammingo per il Duomo di Como.

Di certo si sa che nell’anno 1789, il destino volle che a Palosco i parrocchiani aderissero con entusiasmo alla proposta del Rev. Federico Rossa : “…. li 9 ottobre 1789 resti accordato di fare l’organo a tutta perfezione a giudizio dei periti, anzi fu ordinato dalli Signori Deputati della veneranda fabbrica e Luoghi Pii da essere fatto dal Sig. Giuseppe Serazzi da Bergamo….il prezzo resta accordato in lire nove milla 9000 correnti…”

Fu così che nella Pasqua del 1794 fu posto in opera il nuovo organo con due tastiere, 1518 canne, e 37 registri (i registri sono le diverse voci o strumenti dell’organo: trombe, corni, viole, ripieni, ottavini, voce umana ecc…) e come se non fosse bastato, sempre in quell’anno il consiglio di amministrazione deliberava: “Volendosi fare, anzi desiderando e volendo assolutamente una opera assai magnifica che superi tutti gli organi del Bergamasco e del Bresciano si accrescerà l’organo….” . Alla fine l’organo fu dotato di 2070 canne, i registri quasi raddoppiati da 37 a 61, e il costo maggiorato di 4850 lire.

Il nostro organo durante la manutenzione di quest’anno

Nel corso del 1800 l’organo venne sottoposto solo a qualche intervento di ordinaria manutenzione ma nel 1904 a seguito dei nuovi ampliamenti della Chiesa, l’organo venne smontato e nuovamente spostato per essere posizionato in alto a sinistra dove si trova tutt’ora. Questa operazione fatta per mano della ditta Diego Porro di Brescia richiese anche la necessità di apportare delle modifiche strutturali. L’organo subì dunque delle modifiche dettate dalle nuove esigenze liturgiche ma anche per essere adattato al nuovo spazio. Di queste modifiche ancora oggi se ne possono vedere i segni: se si guarda per esempio all’interno dell’organo si possono notare delle grosse canne le cui sommità furono e son rimaste piegate a 90 gradi perché troppo alte. Altre modifiche riguardarono alcuni registri che vennero aboliti perché proibiti da Pio X in seguito alla Riforma Ceciliana. Purtroppo nel corso degli anni questo originalissimo strumento venne deturpato, impoverito di molte canne (forse anche asportate per altre destinazioni o per altri usi). Così pesantemente manomesso e anche gravemente ridotto a soli 37 registri rispetto ai 61, venne lasciato per incuranza in balia degli agenti rovinosi del tempo.

Un intervento radicale e decisivo che previde la rimessa a nuovo e il restauro completo dell’organo venne attuato nel 1997 da Don Alfonso Lupezza. Artefice del restauro fu l’Antica Ditta Organara del Cav. Emilio Piccinelli e figli, successori degli organari Bossi e continuatori della scuola Serassi. Don Alfonso oltre che ad aver capito l’importanza del restauro ebbe anche l’accurata premura di scegliere e incaricare i Piccinelli appunto, che ancora oggi sono uno dei pochi esempi dell’Antica Arte Orgnaria bergamasca. Costruttori e restauratori in attività, sono gli eredi diretti dei Bossi e dei Serassi, infatti il loro laboratorio conserva ancora le attrezzature antiche di queste famiglie. Furono anche i primi in Italia a restaurare gli antichi organi secondo i criteri storici dovuti. E’ importante ribadire questa cosa perchè, allo stato in cui era ormai ridotto l’organo, il compito di riportarlo agli antichi e soprattutto “originali” splendori non fu certo facile.

 

Un meticoloso lavoro di ricerca, di intuizione (propria solo agli esperti) e comprensione di com’era l’antica struttura in origine, venne affrontato ed egregiamente risolto. I tempi furono lunghi, l’organo venne smontato completamente, canna per canna, insieme a tutte le migliaia di componenti e portato “a pezzi” in laboratorio. Io stesso seguii i lavori e notai che ogni minimo particolare assolutamente normale ai miei occhi, era invece sotto lo sguardo esperto dei Piccinelli, fonte di rivelazione per la ricostruzione sia storica che di fattura dello strumento antico. Le canne esistenti e

La consolle

mancanti, i fori aperti e tappati nei somieri (i somieri sono le tavole dove sono infilate le canne), i mantici, le trasmissioni, la catenacciatura (è il complesso sistema meccanico che permette di aprire le valvole dell’aria abbassando i tasti) le aggiunte, tutto quanto, fu indice importante per la ricostruzione originale. Il lavoro durò parecchi mesi sotto il controllo severo e il benestare della Sovrintendenza alle Belle Arti fino a quando, riparata e ricostruita ogni parte, venne riportato a Palosco e rimontato nell’apposito vano in Chiesa.

Tutto com’era in origine, e tutto funzionante, persino la grossa manovella per gli eroici levamantici, che con fatiche non indifferenti dovevano produrre l’aria destinata alle canne durante le funzioni liturgiche, in tempi remoti quando ancora non esisteva la corrente elettrica. Anche questa funziona ancora, l’unica difficoltà oggi sarebbe quella di trovare degli altrettanto eroici levamantici.

Negli archivi della Chiesa sono conservati anche dei documenti che riportano i contratti con gli organisti, per suonare l’organo durante la liturgia dell’anno. Già nel 1798, quattro anni dalla posa dell’organo veniva incaricato il Sign. Arcaini Francesco di Bolgare di suonare alle funzioni religiose per lire 457 annue. Un’altro documento è del 1807 nel quale si assume il Sig. Vicini Francesco di Calcinate per lire 300 annue. Questo organista avrà in seguito (circa vent’anni dopo) l’ incarico a vita. Nel 1876 il Sig. Chiari Antonio di Mornico per lire 220 annue. Un particolare significativo indice di cura, è che oltre alla mansione di organista, avevano anche il compito di “tener curato l’organo” ed erano responsabili di “comunicare tempestivamente all’Amministrazione eventuali rotture per poter procedere alla riparazione”.

Per quanto riguarda quel che è stata la “nostra” storia in tempi più recenti, è doveroso menzionare chi ha contribuito ad illuminare con il suo suono la liturgia per quasi una vita intera, anche in periodi critici o durante l’avvento della guerra. Due nomi di Palosco balzano subito alla mente: Belometti Angelo e il compianto Gianni Marchetti.

Angelo Belometti

Era il 1936, Belometti Angelo era ancora bambino quando Don Cavagnari al quale serviva un organista, lo sentì a suonare su di un vecchio pianoforte. Decise allora di sovvenzionargli una scuola di organo a Bergamo in modo che imparasse presto e giustamente. Nel 1939, Angelo che aveva 12 anni, era già sulla cantoria dell’organo ad accompagnare i canti delle messe. Il vecchio organista, impiegato alle poste di Mornico, che tutte le mattine attraversava il torrente Cherio con la sua bicicletta per raggiungere la Chiesa e suonare il primo ufficio, data l’età non aspettava altro che qualcuno lo sostituisse. Fu così che dopo poco tempo Angelo passò con giusto diritto ad essere l’organista ufficiale della Parrocchia. Nel 1954 dovette trasferirsi per ragioni di lavoro e lasciò l’incarico a Gianni Marchetti. Ristabilitosi poi a Palosco nel 1960 riprese l’attività di organista. Il Gianni (così chiamato da tutti) aveva frequentato la scuola di musica all’Istituto dei ciechi di Milano durante l’adolescenza , ma erano “tempi stretti” e dopo qualche anno dovette lasciare l’istituto e rientrare in Palosco per aiutare la famiglia. Le difficoltà non gli impedirono però di svolgere la sua attività musicale, e uno dei suoi impegni principali fu suonare l’organo, impegno che dal 1954 mantenne per tutta la vita.

Gianni Marchetti

 

Certo, in quegli anni l’organo era in cattivo stato, e fatto salvo uno o due interventi di pulitura o rimpiazzo generico di alcune canne mediocremente riuscito, non poté che svolgere solo la funzione di accompagnamento ai canti con una varietà di registri molto limitata. Ben diverso invece, quando dopo il già citato restauro del 1997, Don Alfonso si premurò di inaugurare la rinascita dell’organo in tutta la sua magnificenza con un concerto che si potrebbe citare “storico” per Palosco, tenuto dal grande organista Giancarlo Parodi già Professore Emerito di Organo Principale al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma e organista noto in tutto il mondo. Dopo di che, ancora alcuni concerti vennero organizzati in occasione dell’importante “ Rassegna organistica su organi storici di Bergamo” nella quale il nostro organo ha potuto entrare a far parte solo dopo aver riacquistato tutti i requisiti storici e filologici grazie al certosino restauro.

Recentemente uno storico dell’arte organaria che da diversi anni sta svolgendo un intenso lavoro di ricerca sugli organi antichi di elevato valore artistico e storico, è giunto al nostro organo con singolare interesse, l’organo Serassi di Palosco, perchè ritenuto (cito testuali parole) per diverse particolarità di componenti e di costruzione un “pezzo assolutamente unico in Italia”.

Nei prossimi mesi verrà pubblicato il lavoro di ricerca di questo storico, in un libro dove verrà descritto fra gli altri anche il nostro organo.

Purtroppo la documentazione che potrebbe chiarire ulteriormente e definitivamente l’origine dell’organo è molto limitata e difficilmente recuperabile, le poche informazioni qui descritte sono rintracciabili in alcuni documenti depositati nell’archivio della Chiesa e nella Biblioteca di Bergamo e che grazie al lavoro di Padre Giacomo Mazzotti, tempo fa sono stati riordinati e di cui egli stesso scrive nei suoi libri su Palosco.

Don Marco comprendendo prontamente l’importanza di questo prezioso oggetto d’arte d’inestimabile valore, ha voluto e provveduto alla manutenzione, che nel periodo di Pasqua è stata appropriatamente affidata ai già citati organari Piccinelli.

È bello pensare che quando in chiesa si partecipa passivamente e forse con un po’ di disattenzione ai canti, come cosa scontata ed abituale, il suono che si diffonde invece, ha un fascino particolare, racconta tante storie, della nostra storia, della storia di Palosco, un suono che ha accompagnato e continua ad accompagnare spiritualmente tutti coloro che lo hanno ascoltato dai tempi più remoti ad oggi.

In Chiesa, rivolgendo lo sguardo in alto a sinistra, si pensi che sul retro della canna più alta di facciata dell’organo, è graffitta un iscrizione autografa :“costruito dai Fratelli Serassi di Bergamo” con la data “1794”.

Nella Pasqua appena trascorsa, come la Pasqua di 224 anni fa quando venne posato l’organo, quell’antica voce ha nuovamente ricominciato il suo canto.

Giampaolo Botti

Palestrina L’artista di Dio

Sarebbe troppo lungo ricordare tutte le sue opere: Missa Papae Marcelli a 6 voci, l’adorante Ego sum panis vivus (4 voci), Sicut Cervus (4 voci), Super flumina Babylonis (4 voci), ordinari di messe, graduali, mottetti sacri (se ne contano più di 500), antifone e molto ancora. Al vertice del pensiero polifonico rinascimentale troviamo lui, Giovanni Pierluigi da Palestrina. Nato 494 anni fa vicino a Roma la sua produzione ha segnato per sempre la nostra esperienza musicale. L’arco della sua vita vede la trasformazione radicale dell’Europa cristiana. Alla sua morte (1594), Lutero e Trento avevano cambiato la storia religiosa dell’occidente.

Il cardinale Bartolucci ne delineava così la grandezza: “Palestrina è il primo patriarca che ha capito che cosa vuol dire far musica; lui ha intuito la necessità di una scrittura contrappuntistica vincolata dal testo, aliena dalla complessità e dai canoni della scrittura fiamminga.  (…) La musica è arte con la “a” maiuscola. La scultura ha il marmo, l’architettura l’edificio… La musica la vedi solo con gli occhi dello spirito, ti entra dentro. E la Chiesa ha il merito di averla coltivata nelle sue cantorie, di averle dato la grammatica e la sintassi. La musica è l’anima della parola che diventa arte. In definitiva, ti dispone a scoprire e accogliere la bellezza di Dio”.

Puer cantor in S. Maria Maggiore, allievo dei maestri fiamminghi, maestro nelle principali basiliche di Roma, la sua musica si sposava perfettamente con le liturgie della corte papale, non prive di quelle qualità spirituali che le rendevano degne del culto divino. Prima di essere un grande artista era un uomo di fede. Sulla scorta di grandi maestri europei, come J. Deprez e O. di Lasso, Palestrina incarna lo spirito della Riforma cattolica cercando una musicalità nuova e capace di evitare virtuosistici e sterili giochi di voci, restituendo al testo un carattere sacro.

Amico di S. Filippo Neri, componeva per lodare Dio e per aiutare gli uomini a sollevarsi verso le più alte vette della spiritualità. I testi gregoriani, necessario punto di partenza del canto liturgico cattolico, sono riletti in un canto che interpreta il testo senza deformarlo, riuscendo a armonizzare la tradizione monastica medievale e la polifonia sempre più emergente. La leggendaria vicenda della Missa Papae Marcelli, scritta per convincere il papa della legittimità della polifonia nella liturgia, è esemplare del clima molto acceso creatosi attorno al tema del canto sacro. I protestanti rifiutavano il gregoriano per affidarsi al nuovo genere del “corale”, i cattolici più intransigenti non volevano correre il rischio di cedere a musiche polifoniche equivoche e inadatte alle celebrazioni. Nel 1562, a Trento, si propose di abolire definitivamente la musica polifonica dalla vita della Chiesa. Palestrina, con le sue note, riuscì a evitarlo.

Quello che Domenico Bartolucci aveva intuito in Palestrina noi possiamo farlo nostro: egli fu colui che ha saputo andare alla ricerca “dell’anima della parola” sacra e l’ha trasformata in grande arte a servizio della liturgia e per il bene del popolo cristiano.

Attilio Vescovi

Risposta al messaggio della pagina Facebook ENZO JANNACCI

In seguito al nostro concerto dedicato ad Enzo Jannacci, e tenutosi in piazza Manzoni a Palosco il 29 giugno 2013, la Pagina Facebook degli amici di Enzo Jannacci ci ha dedicato un messaggio di ringraziamento:

Ci teniamo a scrivere anche qui che questa partecipazione e tipo di passione così diretta e sincera sono sicuramente il più bel regalo che si potesse fare sia a noi che ad Enzo. Non ha senso tributare cose se non c’è una reale comprensione e condivisione del sentimento perché quello, è la prima e forse unica cosa che si possa davvero tributare con rispetto, e da quello che abbiamo capito..voi avete impersonato così bene l’anima di Enzo che come dicevamo altrove, siamo certi che lui sia veramente passato fra voi.A guardare i vostri occhi, ascoltare i vostri strumenti e le voci dei vostri piccoli…
GRAZIE GRAZIE GRAZIE..!! A TUTTI!
Per favore ringraziateci proprio tutti, anche colui/ei che eventualmente posava solo le sedie…GRAZIE!

 

La nostra risposta alla pagina degli amici di Enzo:

Grazie ancora al gruppo ENZO JANNACCI per i pensieri e le parole belle rivolte all’Associazione.
Mi sento in dovere di rispondere a questi messaggi a nome di tutti.

Da come esprimete i vostri pensieri si capisce che la sensibilità umana e la disponibilità che aveva Enzo Jannacci non se ne sono andate con lui, ma rimangono vive attraverso voi. Enzo ha iniziato una grande opera e voi la porterete avanti come già state facendo: solo il fatto che la vostra attenzione vada anche verso chi non è in prima linea fa trasparire lo spirito che vi anima, e lo spirito che animava lui.

Enzo Jannacci ha difeso valori umani importanti per tutta la sua vita come uomo di spettacolo e come medico. Ogni testo di Jannacci non è casuale, ha sempre un senso profondo, che ancora dopo anni rimane attuale. E ancor più la sua musica, che dietro alla semplicità rivela una grande professionalità e una sensibilità profonda.
La sua musica, NON È SOLO UNA BELLA CANZONETTA, per divertire un pò. E’ Musica con la M maiuscola.

Vi sono persone che divengono abili artisti, formidabili professionisti che, con il tempo divengono … “protagonisti… di se stessi” mediante il “mestiere” dell’arte.
Quello che fa la differenza è che Jannacci era soprattutto un uomo, con pensieri e intenzioni vere, come i suoi dubbi e le sue convinzioni. La sua profonda sensibilità umana lo spingeva a creare nell’arte della musica, della poesia; e a fare quelle scelte di vita personali, conosciute da tutti, nell’ambito della medicina.
Oltre all’abilità (in questo caso preferirei anzi chiamarla intelligenza) artistica, c’era “l’uomo”.
Ciò che lo spingeva a creare era una forte motivazione interna dettata dalla sua grande sensibilità e umanità.

Oggi abbiamo un Papa, Francesco, molto “sentito” dalla gente. Soprattutto i meno fortunati sentono questa sua vicinanza, e … soprattutto quando chiede, con forza e così spesso al mondo, di non rimanere indifferenti e insensibili di fronte alla povertà, al dolore.
Non riesco (e voglio) pensare che nessuno riesca a credere che queste parole semplici, limpide, che tutti possono capire, siano solo una bella predica.
Dietro alla semplicità sta una grande sensibilità umana. Dentro a una apparente semplicità che “arriva a tutti” sta un grande uomo, con un grande senso di responsabilità, che ha da dire grandi verità, anche allarmanti e sconvolgenti .
E proprio per questo arriva a tutti.

Non riesco a credere che « lasa sta’… che l’è roba de barbun » o « … guarda più in alto se c’è l’aereoplano, puzza di guerra, per molti niente di strano… » siano solo belle parole… solo canzonette.

Grazie ancora a voi.
Grazie a Enzo Jannacci.

– Giampaolo Botti